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PAPA’

Ho sempre nella mente questa immagine. La tua schiena. Il tuo loden verde scuro, il Borsalino color tabacco con la fascia nera, il profumo sottile del tuo dopobarba. Ti guardavo uscire di casa ed ogni volta era come se uscissi dalla mia vita. Sapevo che te ne andavi, non sapevo mai quando saresti tornato. Nessuno lo sapeva, nemmeno mamma. Nella mente di una bambina desiderosa degli abbracci del suo papà, di stare con lui, era sempre un eterno abbandono, si perché davanti alla stessa porta, quando tornavi non c’ero mai, perché i tuoi rientri erano inaspettati, mai calcolati, spesso in orari in cui noi bambini eravamo a letto da ore. Non li conosceva nessuno e io non potevo attendere invano qualcuno che non sapevo se sarebbe tornato, anche se per te l’avrei fatto.

A volte ti chiedevo – dove vai papà? – tu mi rispondevi sempre con la stessa frase – al diavolo –

Io timidamente, azzardavo un flebile – posso venire con te? – Le risposte erano sempre e solo due – no, non puoi – oppure – se ti sbrighi –

Mai troppe parole, asciutto ed essenziale.

Quel no era sempre una ferita che mi porto ancora dentro, ma se mi guardavi con quel “si” a mezza bocca, senza mai sorridere troppo, per me era il sole che spuntava.

E allora correvo da mamma a farmi mettere il cappottino. Un cappottino di lana grezza coi risvolti di velluto verde.

Mamma ansiosa, ciarliera, perennemente arruffata, il caos che mi ricopriva di attenzioni malate, per paura mi accadesse di tutto.

E mentre riuscivo a varcare la porta, orgogliosa e felice, la manina nella sua grande e calda, mi voltavo a guardarla, come un addio, come a dire “sto fuggendo col mio principe.

Uscivo con te papà, e con te sarei andata all’inferno

– al diavolo – come mi dicevi sempre tu.

E ti aspetto ancora. Attendo il mio principe che mi sussurra ” vieni, andiamo insieme al diavolo”.

E’ il dramma della mia vita: L’ATTESA.

by Emanuela Vacca

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Solitudini

Anche se si è insieme, si può essere divisi e separati da profonde

Solitudini

solitudini cercate

obbligate

volute

meditative

costrette

ognuno mostra le sue,

E il linguaggio del corpo le mostra con grande espressività

Emanuela Vacca Copyright

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“Silenzi”

il silenzio è nelle cose, nei luoghi, negli sguardi e nell’anima. C’è il silenzio del cuore e quello della mente. C’è il silenzio che giova e un silenzio che nuoce. C’è il silenzio sereno e il silenzio doloroso.

Ogni sienzio parla, ci racconta una storia non detta, forse mai ascoltata.

Copyright by Emanuela Vacca Fotografia

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addio

ce l’ho messa tutta

non ce l’ho fatta

sono venuta a te

col cuore in mano

chiedendo un perdono

mai arrivato, mai donato,

chiedevo solo un gesto, piccolo

di cui sei incapace

ora so che non arriverà mai

hanno vinto i muri

forse hai vinto tu, o forse chissà hai perso anche tu

non cerco più nulla

solo la pace nascosta al sole

della mia solitudine

Manupersempre

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La Tana

by Emanuela Vacca

Era lì. Immobile. La testa orrendamente lucida e pelosa appena fuori dal buco. Sembrava osservarmi con attenzione, senza fretta. Attendeva. Lei, aveva tutto il tempo. Ripuliva, lentamente e con metodo, le lunghe zampe pelose contro la testa scarlatta. In religioso raccoglimento. Un filo biancastro e molle le usciva dalla spaccatura nera che aveva nel cranio. Un filo denso e appiccicoso. Mentre tesseva il suo muco, cullava il corpo tozzo, a destra e a sinistra. Un soffice dondolio sulle zampe arcuate. Pareva una danza rituale di estrema concentrazione su un qualcosa. Forse me. Allungai i piedi fino a sfiorarla. Di colpo si ritrasse sparendo nell’anfratto nero che, nella calda penombra tropicale, pareva immenso e grottesco. Un occhio vuoto che invadeva un altro occhio, sostituendosi al mormorio dei miei pensieri. La pioggia scendeva assordante sopra la mia testa. Uno scrosciare intenso e ipnotico al quale mi sarei volentieri arreso. Non potevo. Una goccia d’acqua cadeva, con ritmo esasperato, tormentandomi il collo, scavando nelle ecchimosi doloranti. Ero immobilizzato. Le strette corde avviluppavano i miei polsi arrivando fino ai piedi.  Ad ogni movimento convulso si avvinghiavano sempre di più, acuendo il dolore ormai incessante.  Uscì di nuovo, forse spinta dalla curiosità. Forse dalla fame. I miei piedi erano lì, immobili, a distanza di sicurezza. La fissavo, in trance. Gli occhi accecati dalla stanchezza. La testa mi ronzava invasa da milioni di api. La nera sporgenza avanzò lentamente prendendo coraggio. Forse sentiva la mia impotenza. Ci voleva poco a farmi fuori in quelle condizioni. Anche un maledetto ragno poteva avere la meglio su di me. Colpii con rabbia il muro staccando un pezzo dell’intonaco marcio. La cosa nera sparì spaventata. La sedia ebbe un sussulto e cadde in avanti. Vidi il muro precipitare su di me. Poi il buio.

Mi risvegliai sdraiato per terra, su un fianco. La testa, schiacciata dalla parete, pulsava dolorosamente. Il respiro era affannoso, quasi un rantolo.  Sentivo l’odore acre del mio corpo, della muffa intorno a me, del marcio. L’odore del mio sangue. La goccia ora cadeva sul pavimento, nella pozza di luce dove prima c’era la mia testa. Una, due, tre…le gocce schizzavano, lente e rumorose, rompendo il silenzio. Continuava a piovere a dirotto. Di tanto in tanto violenti tuoni squarciavano l’apparente quiete, creando bagliori simili ad allucinazioni. Fissai il buco nero che ora invadeva tutto il campo visivo. Ne vedevo i bordi sfrangiati aprirsi nel buio. Ed ecco, il grosso insetto ritrovava coraggio e tornava allo scoperto. Stavolta a pochi centimetri dalla mia faccia. Ero sicuro che fosse femmina. Era sinuosa, lenta. Un’esperta seduttrice, come lei, la donna sbagliata, l’ultima donna. E adesso ero lì, legato come un abbacchio, per aver ceduto al suo richiamo, al suo odore, al colore denso della sua pelle. Tornai a guardare la mia involontaria compagna di prigionia. La posizione mi concedeva uno spettacolo in prima fila. Vedevo i suoi occhi attenti che mi scrutavano. Mille puntini sfaccettati che brillavano nella penombra. Ci studiammo a lungo e lei decise che era in vantaggio su di me. Un brivido lungo la spina dorsale mi fece capire che aveva ragione. Si mosse lentamente, ormai senza più timore. Percepiva il mio sfinimento, la mia paura. Ora il filo bianco era più lungo. Appeso al suo addome. Se lo trascinava goffamente ballandoci intorno. Come un lungo stelo di seta che l’abbelliva. Ne era fiera. Vedevo la sua peluria, nera e soffice, brillare come seta nel riverbero crepuscolare. La sentii su di me e mi parve calda e avvolgente come i velli neri di ricche vegetazioni femminili. Sfide inesplorate e imploranti. Esplosi in una risata stridula. Quel lurido insetto riusciva ad evocare fantasmi che credevo morti. Lei non aveva previsto il suono. In fondo era solo un insetto. Scappò di nuovo nel suo rifugio ed io tornai a respirare.

Lo schianto della porta contro la parete mi fece trasalire. Un muso giallo fece irruzione imprecando. Indossava una tuta mimetica. Un mitra tra le mani.  La faccia sporca. Gli occhi marroni come le acque dello Yang-Tze. Aprì la bocca sdentata urlando in cinese. Sentivo il suo alito fetido di alcool. Non capivo una parola di quello che diceva. Dietro di lui comparvero altri due uomini. Altri musi gialli. Mi rimisero seduto senza mai smettere di urlare. Controllarono le corde. Tutto tornò a posto. Anche la goccia di pioggia riprese a cadere inesorabile nel mio collo. Mi fissarono rabbiosi. Questi qui la rabbia ce l’hanno nel DNA, pensai. L’istinto alla guerra non li abbandona mai. Nemmeno quando si divertono. Uno di loro avanzò e mi si parò davanti. L’occhio destro inesistente, il cranio tatuato, al posto della bocca un taglio. “Stasera morirai ingles!” La sua risata sguaiata puzzava.

Voltai la faccia. “L’hai vista la buca là fuori?” urlò “Dimmi! L’hai vista?” Lo ignorai. Mi arrivò il calcio del fucile sulla tempia. “Fai il gradasso eh? Voglio vedere quando sarai laggiù e le tue luride ossa marciranno nel buio, mangiate dai topi! Voglio sentirti gridare! Hai capito ingles?” Scoppiò di nuovo a ridere alitandomi in faccia. Fissai la tana della vedova con nostalgia. “Ci vediamo al tramonto ingles!” urlò la grande bestia. Non mi voltai. Ma ormai erano usciti. Ero di nuovo solo. Sentii il caldo del sangue colare dalla tempia. I topi. Li odiavo.

Ce n’erano tanti laggiù, sulle dolci colline coperte di erica, sui pendii che correvano verso il mare. Si rincorrevano, scuri, veloci, lanciandosi richiami. Echi striduli nel fragore delle onde. La grande casa sul mare. Il dolce cullarsi della risacca nelle sere d’inverno. La neve che si dissolveva sfiorando leggera l’oceano. Il calore del fuoco nel camino. Gli odori antichi e rassicuranti. E lei, mite e calda. Lacrime dense scesero a dissetare i miei occhi bruciati. Con fatica cacciai via il ricordo. Lo sguardo tornò al buco nell’ombra, alla tana. Se n’era andata. Lei, con la sua dignità ferita. Le femmine. Ridono, se la spassano, ti usano. Gentili, sguaiate, trattenute, pericolose. Come te, stupida bestia, te che scappi al rumore della mia risata. Mi sentii solo. Mi schifavano anche i ragni. Cominciai a chiamarla, dolcemente. Dalla mia gola uscì un suono che pareva un lamento. Aspettavo. Ansioso come ad un appuntamento. Nulla. La pioggia là fuori era aumentata. Tutto era immerso nella fioca luce del crepuscolo. Al tramonto sarebbero venuti. Non ero pronto. Non si è mai pronti. I topi.  Cominciai a tremare. Ero solo. Solo con la mia morte. Non pensare Peter. Non pensare. In India hai imparato a non pensare. Fallo ora. Svuota la mente. Concentrati su qualcosa. La pioggia, si, la pioggia. Il dolce ticchettio rilassante. Lentamente scivolai in un sonno agitato. Sognai fiumi di acqua e fango. La gente imprigionata nelle baracche. Urlavano, chiamando aiuto. Non c’è più posto! Urtai con un remo un corpo. Rema, rema. Volevo salvarmi. Salvai me e, per caso, anche loro. Ero un eroe. Inviato di guerra salva cinque donne. E poi lei. Si era donata a me, grata, per un pugno di riso. Non l’avevo risparmiata. Nemmeno lei. Ero troppo affamato, e lei era così dolce. Era diventata un sogno. Un passato remoto. Mi svegliai di colpo, guardai la penombra della baracca. Ero ancora lì, niente fughe, niente di niente. Tra poco, tra pochissimo sarebbero venuti. Mi avrebbero trascinato là fuori, sotto il diluvio. Avrebbero aperto la botola. Io avrei recalcitrato urlando. Si, avrei urlato, lo sapevo. Non ero così forte per morire in quel modo.

Guardai la tana nera e lei lì, tranquilla. Era tornata e mi aspettava. Forse possiamo sfuggire a quei maledetti topi, che ne dici sorellina? Cominciai a dondolarmi in avanti. Sempre più forte. Finalmente la sedia cedette. Caddi rovinosamente, la faccia per terra. L’impatto fu tremendo. Trattenei il respiro dalla paura. Adesso torneranno. Attesi. Silenzio. Tutto era tranquillo là fuori. Solo il rumore del vento. Sorrisi compiaciuto. Stavolta avevo fatto un buon lavoro e lei era ancora lì. Non si era sottratta al fracasso della mia caduta. Eravamo vicinissimi. Lentamente mosse alcuni passi leggeri. Avanzava piano, pareva non volermi spaventare. Sembrava aver capito, la mia complice. La guardai un’ultima volta, poi chiusi gli occhi e attesi.

Sentii le sue zampette lievi e delicate avventurarsi caute sulla mia spalla, sul mio collo, sul mio volto. Ogni tanto si fermava e si sfregava su di me, come a volermi accarezzare. Non avevo più paura. Il suo morso penetrò improvviso e inesorabile. Un dolore lancinante mi perforò la tempia*.Dopo qualche attimo uno strano distacco s’impossessò di me. Ero spettatore del mio dolore, della mia agonia. La morte in diretta. Quante volte l’avevo filmata. Il mio corpo cominciò a irrigidirsi. Le palpebre divennero pesanti. Le gambe erano già morte. Adesso sentivo la sua carezza sui capelli. La sua danza magica e mortale. Il cuore batteva veloce, ormai impazzito. Un liquido dolciastro mi invase la bocca. Tra poco. Tra poco sarò fuori di qui! Un lungo respiro lento esalò dalle mie labbra.

*La vedova nera è considerata una dei ragni più pericolosi al mondo. Se importunata, attacca mordendo ed iniettando una quantità molto piccola di veleno che può, in rari casi, risultare mortale. Il suo morso non è molto doloroso, ma il veleno agisce rapidamente provocando inizialmente intorpidimento alla parte colpita seguito da rigidità muscolare, sudorazione, cefalea, nausea, intenso dolore addominale accompagnato a rigidità addominale e dorsale, difficoltà respiratorie, vertigini e aumento della temperatura corporea. L’applicazione di ghiaccio sul punto del morso può alleviare il dolore ma è comunque necessaria la somministrazione dell’antidoto.

I colpi alla porta divennero rabbiosi. Voci concitate si accavallavano. Camici bianchi irruppero nella stanza. Videro l’uomo. Giaceva per terra, la stretta camicia attorcigliata intorno al collo. La testa riversa contro la parete. Uno squarcio rosso l’attraversava. “Dannazione dottore, siamo arrivati tardi” Rimasero lì, sulla soglia a fissare impotenti la morte. Nei lunghi e desolati corridoi le porte si aprivano. Era l’ora di cena. I malati uscivano in silenzio dalle celle. Si allineavano lenti, gli sguardi persi, lacunosi. 

Fuori il buio era calato. La pioggia aveva smesso di cadere. Lontano il rumore del vento si mischiava a sussurri strozzati.

Nella cella, una vedova sedeva immota sul cadavere del suo compagno.

Vincitrice del concorso Marguerite Yourcenar

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LA CASA DELL’ALCHIMISTA

CASA DELL’ALCHIMISTA A VALDENOGHER

Prima del 2006 la casa aveva un aspetto un po’ fatiscente. Gli abitanti di Valdenogher (circa 150 persone) e gli abitanti circostanti  della Comunità dell’Alpago ( Spert e Farra) e del Comune di Tambre come delle case sparse nella foresta demaniale del Cansiglio (complessivamente circa 7000 abitanti) fino al 2006 non avevano nessuna idea del significato di alchimia e neppure sapevano dell’esistenza di tale termine. Fortunatamente il Ministero dei Beni Ambientali si accorse di questo edificio storico e lo fece restaurare. Nel 2006  venne  così inaugurata la Casa Museo dell’Alchimista. Nel Cinquecento ai tempi dell’Inquisizione un nobile proveniente da Alessandria d’Egitto era stato condannato a morte dalla Chiesa con l’accusa di stregoneria. Poiché proveniva da Alessandria gli fu attribuito il nome italiano di Alessandro Lissandri. Non era uno stregone che compiva malefici, ma semplicemente un alchimista.  Trovò protezione da parte della Repubblica di Venezia e cercò un luogo isolato per effettuare i propri esperimenti. Fece quindi costruire a Valdenogher a 800 metri d’altezza, situato a quei tempi  in una zona sperduta, la casa laboratorio per gli esperimenti di alchimia. Non si conosce molto della vita di questo alchimista ma la sua casa ha lasciato sicuramente un segno indelebile nella storia. Le pareti esterne sono decorate con simboli di pietra e bassorilievi rappresentanti allegorie alchemiche.

Dal punto di vista architettonico l’edificio è di stile tardogotico e subì alcuni rimaneggiamenti nel XVIII secolo. Originariamente al piano terra vi erano tre arcate aperte che formavano un portico. Poi nel XVIII secolo due arcate laterali furono murate e ne rimase solo una. Tra le decorazioni murali si osservano i due serpenti intrecciati, il “duplice Mercurio”. Queste copie di serpenti intrecciati ricordano il Caduceo di Ermete e simboleggiano anche la trasformazione del veleno in farmaco. La suddivisione della casa in tre piani simboleggia le tre fasi dell’Opus alchemica per ottenere la Pietra Filosofale. Il piano terra corrisponde alla nigredo o opera al nero, il primo all’albedo o opera al bianco e il terzo piano alla rubedo o opera al rosso. Lo scopo dell’ottenimento della Pietra filosofale era quello di sconfiggere i grandi mali dell’epoca cioè le malattie e la miseria. La Pietra aveva poteri di guarigione (trasformando i veleni in farmaci) come pure di trasformazione dal piombo all’oro. La trasformazione dal piombo in oro non era solo un’operazione chimica e materiale ma doveva avvenire contemporaneamente all’evoluzione spirituale dell’alchimista.

Nel ‘Settecento venne effettuato un intervento di restauro ma i restauratori ignoravano totalmente il significato simbolico dell’alchimia. Nel XVIII secolo l’edificio divenne proprietà di Alessandro Bortoluzzi, originario di Serravalle, che aveva acquistato diverse proprietà terriere a Valdenogher ad uso agricolo. La casa ormai era passata da tempo da uso laboratorio alchemico ad uso abitativo. Dal capostipite Alessandro discesero numerosi rami della famiglia e di conseguenza nella casa si stabilirono più nuclei familiari in coabitazione. Per ampliare lo spazio abitativo venne chiuso il portico al piano terra. La casa rimase abitata fino al 1930. Gli ultimi abitanti della casa trovarono degli antichi libri di alchimia nella soffitta. Credendo si trattasse di manuali per invocazioni diaboliche li bruciarono, così andarono perdute preziose documentazioni riallacciabili alla storia della casa. Poi la casa rimase disabitata e andò incontro ad un prolungato degrado fino agli inizi del nostro secolo. Poi l’edificio incontrò l’interesse del Ministero dei Beni Culturali e fu restaurato. Nel 2006 venne inaugurata la Casa Museo dell’Alchimista gestita dal Comune di Tambre (del quale Valdenogher è una frazione). Naturalmente degli oggetti (e dei libri) originali non rimaneva più nulla da secoli e quelli esposti, come gli alambicchi, sono ricostruzioni. Sono splendide le grandi illustrazioni esposte sulle pareti tratte da antichi libri di alchimia.

Le varie stanze sono contraddistinte da segnali di animali simbolici dell’alchimia: al piano terra il Corvo ad indicare la Nigredo (opera al nero), al primi piano la Colomba ad indicare l’Albedo (opera al bianco, al secondo piano la Fenice ad indicare la Rubedo (opera al rosso).

Di Emilio Ponchielli

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la nuotatrice

Ielena era una ragazzona scura di pelle con tanti capelli neri e lucidi. Ogni mattina Ielena si faceva la lunga treccia che arrotolava intorno alla testa, infilava il fazzoletto grigio, lo stesso uguale a quello delle sue compagne, il grembiule ampio e pesante di canapa, gli zoccoli di legno e una camicia uguale alla gonna grigia. Prendeva il sapone, lo stesso che usava per lavarsi, bianco e grezzo, che rendeva le mani ruvide e la pelle riarsa, il mastello e usciva dalla sua casa uguale a tutte le altre allineate in file ordinate. Case di legno con un camino sul tetto e una piccola veranda davanti. Case piccole che ospitavano una cucina e una camera, il bagno era fuori, in comune con le altre donne, le stesse che stava raggiungendo al fiume, al di là del bosco. Si mise in cammino Ielena, il mastello sulla testa carico di abiti sporchi dei soldati che avrebbe dovuto lavare per bene, laggiù al fiume insieme alle altre, tutte messe in fila coi loro mastelli, il loro sapone ma nessuna asse per lavare, perché i panni si battevano contro gli scogli grigi del torrente. Un torrente impetuoso e pericoloso che ogni tanto reclamava la sua vittima sacrificale. E camminava in mezzo alla foresta che divideva il villaggio dal fiume, camminava e pensava alla sua passione, il nuoto, fin da piccola si buttava nella corrente del fiume e riemergeva con qualche bel salmone che portava al padre come trofeo della sua bravura. Saltava e guizzava tra i gorghi come un agile pesce, intrepida e forte. Glielo aveva insegnato il fratello, le aveva insegnato come fanno i maschi, quelli che un domani sarebbero diventati dei bravi soldati. Uomini che non temevano nulla, il freddo come la fame e gettarsi tra le rapide mortali del loro torrente che però gli regalava ciò con cui si sostentavano. Dacci oggi il pane quotidiano e lei se lo procurava, ogni giorno rischiando, per suo padre e per il dolce fratello che presto se ne sarebbe andato soldato. E crebbe forte e agile Ielena, veloce e sicura tra quelle onde come i salmoni che pescava. E quel giorno scese al fiume come ogni giorno. Si posizionò al solito posto tra le compagne, anch’esse vestite di grigio con i fazzoletti grigi per riparare i capelli dal sole cocente e si mise a riempire la sua tinozza. La sollevò con le braccia forti da nuotatrice e la posizionò sulla roccia, il suo punto preferito da dove poteva ammirare i piccoli salti che faceva l’acqua, le rapide, il rumore fresco del suo impeto. E se ne stava così a lavorare per quella misera paga che serviva solo per qualche patata e una pagnotta di pane, perché il pesce lo sapeva prendere lei, e la sua era una famiglia privilegiata. Poco distante dal lavatoio c’era la villa dei signori, dei bei signori gentili che vivevano d’estate nella dacia di campagna e lei, la madama, portava a spasso la sua bimba di tre anni giù al fiume a guardare la fatica delle donne in ginocchio, a fissare le loro schiene i movimento, il rumore dei panni sbattuti forte forte. E la bimba rideva e indicava col ditino le divise verdi, ormai sbiadite che mano a mano si accatastavano strizzate ma ancora gocciolanti vicino ai fianchi larghi e forti delle donne. E quel giorno la signora era più allegra del solito e volle abbassarsi a dialogare con qualcuna di queste donne serie che poco avevano da dire delle loro giornate tutte uguali, eppure non si lamentavano mai e non mancava nemmeno qualche viso sereno che ogni tanto si levava per tergersi il sudore dalla fronte e distendere la schiena dolorante. Erano tutte in fila sulla riva del fiume, tutte intente, nessuna perdeva tempo in chiacchiere, perché le chiacchiere erano soldi in meno mentre lei, la signora, aveva una gran voglia di scambiare una parola. Era sempre sola nella grande casa, il marito se ne andava al comando a dirigere non capiva quali grandi manovre, e quelle donne le piacevano, così semplici e fresche, e serie e operose, così si fermò presso di loro e cominciò a chiedere come sta e quanto le manca, e da quanto tempo è al campo e qualcuna le rispondeva grata di questa piccola interruzione e fu lì che la piccola venne attirata dal brillio dell’acqua, dal suo rumore argentino, dalla sua purezza. E come ipnotizzata lasciò la mano calda e sicura e si inoltrò tra l’erba più alta di lei e sparì alla vista. E mise male il piedino la piccola, e scivolò. La mamma si accorse troppo tardi e lanciò un urlo di dolore e di aiuto, la piccola era sparita tra i gorghi. E allora si vide una donna che si alzò studiando il fiume, come a valutarlo, si levò il fazzoletto dalla testa e i capelli brillarono come diamanti neri, e mentre correva si sfilò gli zoccoli e non sentiva i sassi che le pungevano le piante dei piedi, correva e si sganciò la gonna che cadde a terra nella corsa e tutte le donne la mano sulla fronte per proteggere gli occhi dal riverbero del sole se ne stavano in piedi, il lavoro interrotto, fissandola attente, e videro il corpo agile alzarsi in volo nel vuoto. Un tuffo perfetto e dritto come il salmone che affronta le rapide, Ielena si infilò senza uno spruzzo nella grande e pericolosa pozza d’acqua che il fiume faceva in quel punto. Là sotto tutto era silenzio ma la vide subito e con due colpi di reni raggiunse il corpicino già immobile. Lo abbracciò e risalì velocissima. Tutto si era svolto in una manciata di secondi. Risalì e depose con delicatezza la bimba per terra e cominciò a fare come le aveva insegnato il fratello. Le braccine in alto, su e giù e l’aria nella bocca e poi piccole spinte sul cuoricino, si un piccolo massaggio. E lo fece una due e tre volte mentre tutte le donne la mamma davanti la circondavano in preda all’ansia e al terrore. Mute, silenti davanti al pericolo intenso. E i volti scuri erano tutti diventati pallidi e le teste bruciavano nel sole di Crimea, senza il grigio dei fazzoletti. Il luccichio dei neri capelli di tante donne tutte unite da un unico desiderio, da un unico destino. E improvviso e miracoloso il colpo di tosse arrivò e la piccola sputò l’acqua dai polmoni. E aprì gli occhi incredibilmente azzurri, quell’azzurro intenso della gente di Russia. La madre corse a riabbracciar la piccola, si chinò per terra, infangando le belle scarpine bianche, buttando il bel cappello di paglia, gualcendo il vestito immacolato, i guanti che abbellivano le mani delicate che mai avevano visto un panno da lavare e strinse la piccola al petto. Piangendo il suo nome insieme a quello della Vergine. E subito appena calma, si volse alla donna che ansante e grondante le stava di fronte, mezza svestita, lo sguardo serio e il petto che si alzava e abbassava veloce. E la bella signora corse senza vergogna ad abbracciare le gambe della nuotatrice, si buttò ai piedi di chi se ne stava ferma, compresa, umile a riprendere le forze – Grazie – fu l’unica parola che uscì dalla gola contratta della signora – Grazie – sussurrò stritolando le gambe robuste di Ielena, che senza fiato fissava la chioma bionda e dolce della giovane mamma e l’unica cosa che riuscì a pensare fu “che bei capelli biondi” e poi con dolcezza si chinò, sollevò la dolce e sola signora e la portò al sicuro in mezzo a loro, insieme a tutte le altre lavandaie di divise. E la piccola aveva già dimenticato, sgridata a dovere senza capire nulla, si mise a lavare uno straccio insieme alla mamma. E china anch’essa su un mastello rideva felice, lo sguardo colmo di gratitudine, rideva la mamma insieme alle altre donne, tutte compagne, tutte donne.


RACCONTO DI EMANUELA VACCA tutti i diritti riservati


Nell’immagine: Felice Casorati – I Tuffatori –