In evidenza

“Silenzi”

il silenzio è nelle cose, nei luoghi, negli sguardi e nell’anima. C’è il silenzio del cuore e quello della mente. C’è il silenzio che giova e un silenzio che nuoce. C’è il silenzio sereno e il silenzio doloroso.

Ogni sienzio parla, ci racconta una storia non detta, forse mai ascoltata.

Copyright by Emanuela Vacca Fotografia

In evidenza

addio

ce l’ho messa tutta

non ce l’ho fatta

sono venuta a te

col cuore in mano

chiedendo un perdono

mai arrivato, mai donato,

chiedevo solo un gesto, piccolo

di cui sei incapace

ora so che non arriverà mai

hanno vinto i muri

forse hai vinto tu, o forse chissà hai perso anche tu

non cerco più nulla

solo la pace nascosta al sole

della mia solitudine

Manupersempre

In evidenza

La Tana

by Emanuela Vacca

Era lì. Immobile. La testa orrendamente lucida e pelosa appena fuori dal buco. Sembrava osservarmi con attenzione, senza fretta. Attendeva. Lei, aveva tutto il tempo. Ripuliva, lentamente e con metodo, le lunghe zampe pelose contro la testa scarlatta. In religioso raccoglimento. Un filo biancastro e molle le usciva dalla spaccatura nera che aveva nel cranio. Un filo denso e appiccicoso. Mentre tesseva il suo muco, cullava il corpo tozzo, a destra e a sinistra. Un soffice dondolio sulle zampe arcuate. Pareva una danza rituale di estrema concentrazione su un qualcosa. Forse me. Allungai i piedi fino a sfiorarla. Di colpo si ritrasse sparendo nell’anfratto nero che, nella calda penombra tropicale, pareva immenso e grottesco. Un occhio vuoto che invadeva un altro occhio, sostituendosi al mormorio dei miei pensieri. La pioggia scendeva assordante sopra la mia testa. Uno scrosciare intenso e ipnotico al quale mi sarei volentieri arreso. Non potevo. Una goccia d’acqua cadeva, con ritmo esasperato, tormentandomi il collo, scavando nelle ecchimosi doloranti. Ero immobilizzato. Le strette corde avviluppavano i miei polsi arrivando fino ai piedi.  Ad ogni movimento convulso si avvinghiavano sempre di più, acuendo il dolore ormai incessante.  Uscì di nuovo, forse spinta dalla curiosità. Forse dalla fame. I miei piedi erano lì, immobili, a distanza di sicurezza. La fissavo, in trance. Gli occhi accecati dalla stanchezza. La testa mi ronzava invasa da milioni di api. La nera sporgenza avanzò lentamente prendendo coraggio. Forse sentiva la mia impotenza. Ci voleva poco a farmi fuori in quelle condizioni. Anche un maledetto ragno poteva avere la meglio su di me. Colpii con rabbia il muro staccando un pezzo dell’intonaco marcio. La cosa nera sparì spaventata. La sedia ebbe un sussulto e cadde in avanti. Vidi il muro precipitare su di me. Poi il buio.

Mi risvegliai sdraiato per terra, su un fianco. La testa, schiacciata dalla parete, pulsava dolorosamente. Il respiro era affannoso, quasi un rantolo.  Sentivo l’odore acre del mio corpo, della muffa intorno a me, del marcio. L’odore del mio sangue. La goccia ora cadeva sul pavimento, nella pozza di luce dove prima c’era la mia testa. Una, due, tre…le gocce schizzavano, lente e rumorose, rompendo il silenzio. Continuava a piovere a dirotto. Di tanto in tanto violenti tuoni squarciavano l’apparente quiete, creando bagliori simili ad allucinazioni. Fissai il buco nero che ora invadeva tutto il campo visivo. Ne vedevo i bordi sfrangiati aprirsi nel buio. Ed ecco, il grosso insetto ritrovava coraggio e tornava allo scoperto. Stavolta a pochi centimetri dalla mia faccia. Ero sicuro che fosse femmina. Era sinuosa, lenta. Un’esperta seduttrice, come lei, la donna sbagliata, l’ultima donna. E adesso ero lì, legato come un abbacchio, per aver ceduto al suo richiamo, al suo odore, al colore denso della sua pelle. Tornai a guardare la mia involontaria compagna di prigionia. La posizione mi concedeva uno spettacolo in prima fila. Vedevo i suoi occhi attenti che mi scrutavano. Mille puntini sfaccettati che brillavano nella penombra. Ci studiammo a lungo e lei decise che era in vantaggio su di me. Un brivido lungo la spina dorsale mi fece capire che aveva ragione. Si mosse lentamente, ormai senza più timore. Percepiva il mio sfinimento, la mia paura. Ora il filo bianco era più lungo. Appeso al suo addome. Se lo trascinava goffamente ballandoci intorno. Come un lungo stelo di seta che l’abbelliva. Ne era fiera. Vedevo la sua peluria, nera e soffice, brillare come seta nel riverbero crepuscolare. La sentii su di me e mi parve calda e avvolgente come i velli neri di ricche vegetazioni femminili. Sfide inesplorate e imploranti. Esplosi in una risata stridula. Quel lurido insetto riusciva ad evocare fantasmi che credevo morti. Lei non aveva previsto il suono. In fondo era solo un insetto. Scappò di nuovo nel suo rifugio ed io tornai a respirare.

Lo schianto della porta contro la parete mi fece trasalire. Un muso giallo fece irruzione imprecando. Indossava una tuta mimetica. Un mitra tra le mani.  La faccia sporca. Gli occhi marroni come le acque dello Yang-Tze. Aprì la bocca sdentata urlando in cinese. Sentivo il suo alito fetido di alcool. Non capivo una parola di quello che diceva. Dietro di lui comparvero altri due uomini. Altri musi gialli. Mi rimisero seduto senza mai smettere di urlare. Controllarono le corde. Tutto tornò a posto. Anche la goccia di pioggia riprese a cadere inesorabile nel mio collo. Mi fissarono rabbiosi. Questi qui la rabbia ce l’hanno nel DNA, pensai. L’istinto alla guerra non li abbandona mai. Nemmeno quando si divertono. Uno di loro avanzò e mi si parò davanti. L’occhio destro inesistente, il cranio tatuato, al posto della bocca un taglio. “Stasera morirai ingles!” La sua risata sguaiata puzzava.

Voltai la faccia. “L’hai vista la buca là fuori?” urlò “Dimmi! L’hai vista?” Lo ignorai. Mi arrivò il calcio del fucile sulla tempia. “Fai il gradasso eh? Voglio vedere quando sarai laggiù e le tue luride ossa marciranno nel buio, mangiate dai topi! Voglio sentirti gridare! Hai capito ingles?” Scoppiò di nuovo a ridere alitandomi in faccia. Fissai la tana della vedova con nostalgia. “Ci vediamo al tramonto ingles!” urlò la grande bestia. Non mi voltai. Ma ormai erano usciti. Ero di nuovo solo. Sentii il caldo del sangue colare dalla tempia. I topi. Li odiavo.

Ce n’erano tanti laggiù, sulle dolci colline coperte di erica, sui pendii che correvano verso il mare. Si rincorrevano, scuri, veloci, lanciandosi richiami. Echi striduli nel fragore delle onde. La grande casa sul mare. Il dolce cullarsi della risacca nelle sere d’inverno. La neve che si dissolveva sfiorando leggera l’oceano. Il calore del fuoco nel camino. Gli odori antichi e rassicuranti. E lei, mite e calda. Lacrime dense scesero a dissetare i miei occhi bruciati. Con fatica cacciai via il ricordo. Lo sguardo tornò al buco nell’ombra, alla tana. Se n’era andata. Lei, con la sua dignità ferita. Le femmine. Ridono, se la spassano, ti usano. Gentili, sguaiate, trattenute, pericolose. Come te, stupida bestia, te che scappi al rumore della mia risata. Mi sentii solo. Mi schifavano anche i ragni. Cominciai a chiamarla, dolcemente. Dalla mia gola uscì un suono che pareva un lamento. Aspettavo. Ansioso come ad un appuntamento. Nulla. La pioggia là fuori era aumentata. Tutto era immerso nella fioca luce del crepuscolo. Al tramonto sarebbero venuti. Non ero pronto. Non si è mai pronti. I topi.  Cominciai a tremare. Ero solo. Solo con la mia morte. Non pensare Peter. Non pensare. In India hai imparato a non pensare. Fallo ora. Svuota la mente. Concentrati su qualcosa. La pioggia, si, la pioggia. Il dolce ticchettio rilassante. Lentamente scivolai in un sonno agitato. Sognai fiumi di acqua e fango. La gente imprigionata nelle baracche. Urlavano, chiamando aiuto. Non c’è più posto! Urtai con un remo un corpo. Rema, rema. Volevo salvarmi. Salvai me e, per caso, anche loro. Ero un eroe. Inviato di guerra salva cinque donne. E poi lei. Si era donata a me, grata, per un pugno di riso. Non l’avevo risparmiata. Nemmeno lei. Ero troppo affamato, e lei era così dolce. Era diventata un sogno. Un passato remoto. Mi svegliai di colpo, guardai la penombra della baracca. Ero ancora lì, niente fughe, niente di niente. Tra poco, tra pochissimo sarebbero venuti. Mi avrebbero trascinato là fuori, sotto il diluvio. Avrebbero aperto la botola. Io avrei recalcitrato urlando. Si, avrei urlato, lo sapevo. Non ero così forte per morire in quel modo.

Guardai la tana nera e lei lì, tranquilla. Era tornata e mi aspettava. Forse possiamo sfuggire a quei maledetti topi, che ne dici sorellina? Cominciai a dondolarmi in avanti. Sempre più forte. Finalmente la sedia cedette. Caddi rovinosamente, la faccia per terra. L’impatto fu tremendo. Trattenei il respiro dalla paura. Adesso torneranno. Attesi. Silenzio. Tutto era tranquillo là fuori. Solo il rumore del vento. Sorrisi compiaciuto. Stavolta avevo fatto un buon lavoro e lei era ancora lì. Non si era sottratta al fracasso della mia caduta. Eravamo vicinissimi. Lentamente mosse alcuni passi leggeri. Avanzava piano, pareva non volermi spaventare. Sembrava aver capito, la mia complice. La guardai un’ultima volta, poi chiusi gli occhi e attesi.

Sentii le sue zampette lievi e delicate avventurarsi caute sulla mia spalla, sul mio collo, sul mio volto. Ogni tanto si fermava e si sfregava su di me, come a volermi accarezzare. Non avevo più paura. Il suo morso penetrò improvviso e inesorabile. Un dolore lancinante mi perforò la tempia*.Dopo qualche attimo uno strano distacco s’impossessò di me. Ero spettatore del mio dolore, della mia agonia. La morte in diretta. Quante volte l’avevo filmata. Il mio corpo cominciò a irrigidirsi. Le palpebre divennero pesanti. Le gambe erano già morte. Adesso sentivo la sua carezza sui capelli. La sua danza magica e mortale. Il cuore batteva veloce, ormai impazzito. Un liquido dolciastro mi invase la bocca. Tra poco. Tra poco sarò fuori di qui! Un lungo respiro lento esalò dalle mie labbra.

*La vedova nera è considerata una dei ragni più pericolosi al mondo. Se importunata, attacca mordendo ed iniettando una quantità molto piccola di veleno che può, in rari casi, risultare mortale. Il suo morso non è molto doloroso, ma il veleno agisce rapidamente provocando inizialmente intorpidimento alla parte colpita seguito da rigidità muscolare, sudorazione, cefalea, nausea, intenso dolore addominale accompagnato a rigidità addominale e dorsale, difficoltà respiratorie, vertigini e aumento della temperatura corporea. L’applicazione di ghiaccio sul punto del morso può alleviare il dolore ma è comunque necessaria la somministrazione dell’antidoto.

I colpi alla porta divennero rabbiosi. Voci concitate si accavallavano. Camici bianchi irruppero nella stanza. Videro l’uomo. Giaceva per terra, la stretta camicia attorcigliata intorno al collo. La testa riversa contro la parete. Uno squarcio rosso l’attraversava. “Dannazione dottore, siamo arrivati tardi” Rimasero lì, sulla soglia a fissare impotenti la morte. Nei lunghi e desolati corridoi le porte si aprivano. Era l’ora di cena. I malati uscivano in silenzio dalle celle. Si allineavano lenti, gli sguardi persi, lacunosi. 

Fuori il buio era calato. La pioggia aveva smesso di cadere. Lontano il rumore del vento si mischiava a sussurri strozzati.

Nella cella, una vedova sedeva immota sul cadavere del suo compagno.

Vincitrice del concorso Marguerite Yourcenar

TUTTI I DIRITTI RISERVATI

COPYRIGHT DI EMANUELA VACCA

VIETATA RIPRODUZIONE

In evidenza

LA CASA DELL’ALCHIMISTA

CASA DELL’ALCHIMISTA A VALDENOGHER

Prima del 2006 la casa aveva un aspetto un po’ fatiscente. Gli abitanti di Valdenogher (circa 150 persone) e gli abitanti circostanti  della Comunità dell’Alpago ( Spert e Farra) e del Comune di Tambre come delle case sparse nella foresta demaniale del Cansiglio (complessivamente circa 7000 abitanti) fino al 2006 non avevano nessuna idea del significato di alchimia e neppure sapevano dell’esistenza di tale termine. Fortunatamente il Ministero dei Beni Ambientali si accorse di questo edificio storico e lo fece restaurare. Nel 2006  venne  così inaugurata la Casa Museo dell’Alchimista. Nel Cinquecento ai tempi dell’Inquisizione un nobile proveniente da Alessandria d’Egitto era stato condannato a morte dalla Chiesa con l’accusa di stregoneria. Poiché proveniva da Alessandria gli fu attribuito il nome italiano di Alessandro Lissandri. Non era uno stregone che compiva malefici, ma semplicemente un alchimista.  Trovò protezione da parte della Repubblica di Venezia e cercò un luogo isolato per effettuare i propri esperimenti. Fece quindi costruire a Valdenogher a 800 metri d’altezza, situato a quei tempi  in una zona sperduta, la casa laboratorio per gli esperimenti di alchimia. Non si conosce molto della vita di questo alchimista ma la sua casa ha lasciato sicuramente un segno indelebile nella storia. Le pareti esterne sono decorate con simboli di pietra e bassorilievi rappresentanti allegorie alchemiche.

Dal punto di vista architettonico l’edificio è di stile tardogotico e subì alcuni rimaneggiamenti nel XVIII secolo. Originariamente al piano terra vi erano tre arcate aperte che formavano un portico. Poi nel XVIII secolo due arcate laterali furono murate e ne rimase solo una. Tra le decorazioni murali si osservano i due serpenti intrecciati, il “duplice Mercurio”. Queste copie di serpenti intrecciati ricordano il Caduceo di Ermete e simboleggiano anche la trasformazione del veleno in farmaco. La suddivisione della casa in tre piani simboleggia le tre fasi dell’Opus alchemica per ottenere la Pietra Filosofale. Il piano terra corrisponde alla nigredo o opera al nero, il primo all’albedo o opera al bianco e il terzo piano alla rubedo o opera al rosso. Lo scopo dell’ottenimento della Pietra filosofale era quello di sconfiggere i grandi mali dell’epoca cioè le malattie e la miseria. La Pietra aveva poteri di guarigione (trasformando i veleni in farmaci) come pure di trasformazione dal piombo all’oro. La trasformazione dal piombo in oro non era solo un’operazione chimica e materiale ma doveva avvenire contemporaneamente all’evoluzione spirituale dell’alchimista.

Nel ‘Settecento venne effettuato un intervento di restauro ma i restauratori ignoravano totalmente il significato simbolico dell’alchimia. Nel XVIII secolo l’edificio divenne proprietà di Alessandro Bortoluzzi, originario di Serravalle, che aveva acquistato diverse proprietà terriere a Valdenogher ad uso agricolo. La casa ormai era passata da tempo da uso laboratorio alchemico ad uso abitativo. Dal capostipite Alessandro discesero numerosi rami della famiglia e di conseguenza nella casa si stabilirono più nuclei familiari in coabitazione. Per ampliare lo spazio abitativo venne chiuso il portico al piano terra. La casa rimase abitata fino al 1930. Gli ultimi abitanti della casa trovarono degli antichi libri di alchimia nella soffitta. Credendo si trattasse di manuali per invocazioni diaboliche li bruciarono, così andarono perdute preziose documentazioni riallacciabili alla storia della casa. Poi la casa rimase disabitata e andò incontro ad un prolungato degrado fino agli inizi del nostro secolo. Poi l’edificio incontrò l’interesse del Ministero dei Beni Culturali e fu restaurato. Nel 2006 venne inaugurata la Casa Museo dell’Alchimista gestita dal Comune di Tambre (del quale Valdenogher è una frazione). Naturalmente degli oggetti (e dei libri) originali non rimaneva più nulla da secoli e quelli esposti, come gli alambicchi, sono ricostruzioni. Sono splendide le grandi illustrazioni esposte sulle pareti tratte da antichi libri di alchimia.

Le varie stanze sono contraddistinte da segnali di animali simbolici dell’alchimia: al piano terra il Corvo ad indicare la Nigredo (opera al nero), al primi piano la Colomba ad indicare l’Albedo (opera al bianco, al secondo piano la Fenice ad indicare la Rubedo (opera al rosso).

Di Emilio Ponchielli

In evidenza

la nuotatrice

Ielena era una ragazzona scura di pelle con tanti capelli neri e lucidi. Ogni mattina Ielena si faceva la lunga treccia che arrotolava intorno alla testa, infilava il fazzoletto grigio, lo stesso uguale a quello delle sue compagne, il grembiule ampio e pesante di canapa, gli zoccoli di legno e una camicia uguale alla gonna grigia. Prendeva il sapone, lo stesso che usava per lavarsi, bianco e grezzo, che rendeva le mani ruvide e la pelle riarsa, il mastello e usciva dalla sua casa uguale a tutte le altre allineate in file ordinate. Case di legno con un camino sul tetto e una piccola veranda davanti. Case piccole che ospitavano una cucina e una camera, il bagno era fuori, in comune con le altre donne, le stesse che stava raggiungendo al fiume, al di là del bosco. Si mise in cammino Ielena, il mastello sulla testa carico di abiti sporchi dei soldati che avrebbe dovuto lavare per bene, laggiù al fiume insieme alle altre, tutte messe in fila coi loro mastelli, il loro sapone ma nessuna asse per lavare, perché i panni si battevano contro gli scogli grigi del torrente. Un torrente impetuoso e pericoloso che ogni tanto reclamava la sua vittima sacrificale. E camminava in mezzo alla foresta che divideva il villaggio dal fiume, camminava e pensava alla sua passione, il nuoto, fin da piccola si buttava nella corrente del fiume e riemergeva con qualche bel salmone che portava al padre come trofeo della sua bravura. Saltava e guizzava tra i gorghi come un agile pesce, intrepida e forte. Glielo aveva insegnato il fratello, le aveva insegnato come fanno i maschi, quelli che un domani sarebbero diventati dei bravi soldati. Uomini che non temevano nulla, il freddo come la fame e gettarsi tra le rapide mortali del loro torrente che però gli regalava ciò con cui si sostentavano. Dacci oggi il pane quotidiano e lei se lo procurava, ogni giorno rischiando, per suo padre e per il dolce fratello che presto se ne sarebbe andato soldato. E crebbe forte e agile Ielena, veloce e sicura tra quelle onde come i salmoni che pescava. E quel giorno scese al fiume come ogni giorno. Si posizionò al solito posto tra le compagne, anch’esse vestite di grigio con i fazzoletti grigi per riparare i capelli dal sole cocente e si mise a riempire la sua tinozza. La sollevò con le braccia forti da nuotatrice e la posizionò sulla roccia, il suo punto preferito da dove poteva ammirare i piccoli salti che faceva l’acqua, le rapide, il rumore fresco del suo impeto. E se ne stava così a lavorare per quella misera paga che serviva solo per qualche patata e una pagnotta di pane, perché il pesce lo sapeva prendere lei, e la sua era una famiglia privilegiata. Poco distante dal lavatoio c’era la villa dei signori, dei bei signori gentili che vivevano d’estate nella dacia di campagna e lei, la madama, portava a spasso la sua bimba di tre anni giù al fiume a guardare la fatica delle donne in ginocchio, a fissare le loro schiene i movimento, il rumore dei panni sbattuti forte forte. E la bimba rideva e indicava col ditino le divise verdi, ormai sbiadite che mano a mano si accatastavano strizzate ma ancora gocciolanti vicino ai fianchi larghi e forti delle donne. E quel giorno la signora era più allegra del solito e volle abbassarsi a dialogare con qualcuna di queste donne serie che poco avevano da dire delle loro giornate tutte uguali, eppure non si lamentavano mai e non mancava nemmeno qualche viso sereno che ogni tanto si levava per tergersi il sudore dalla fronte e distendere la schiena dolorante. Erano tutte in fila sulla riva del fiume, tutte intente, nessuna perdeva tempo in chiacchiere, perché le chiacchiere erano soldi in meno mentre lei, la signora, aveva una gran voglia di scambiare una parola. Era sempre sola nella grande casa, il marito se ne andava al comando a dirigere non capiva quali grandi manovre, e quelle donne le piacevano, così semplici e fresche, e serie e operose, così si fermò presso di loro e cominciò a chiedere come sta e quanto le manca, e da quanto tempo è al campo e qualcuna le rispondeva grata di questa piccola interruzione e fu lì che la piccola venne attirata dal brillio dell’acqua, dal suo rumore argentino, dalla sua purezza. E come ipnotizzata lasciò la mano calda e sicura e si inoltrò tra l’erba più alta di lei e sparì alla vista. E mise male il piedino la piccola, e scivolò. La mamma si accorse troppo tardi e lanciò un urlo di dolore e di aiuto, la piccola era sparita tra i gorghi. E allora si vide una donna che si alzò studiando il fiume, come a valutarlo, si levò il fazzoletto dalla testa e i capelli brillarono come diamanti neri, e mentre correva si sfilò gli zoccoli e non sentiva i sassi che le pungevano le piante dei piedi, correva e si sganciò la gonna che cadde a terra nella corsa e tutte le donne la mano sulla fronte per proteggere gli occhi dal riverbero del sole se ne stavano in piedi, il lavoro interrotto, fissandola attente, e videro il corpo agile alzarsi in volo nel vuoto. Un tuffo perfetto e dritto come il salmone che affronta le rapide, Ielena si infilò senza uno spruzzo nella grande e pericolosa pozza d’acqua che il fiume faceva in quel punto. Là sotto tutto era silenzio ma la vide subito e con due colpi di reni raggiunse il corpicino già immobile. Lo abbracciò e risalì velocissima. Tutto si era svolto in una manciata di secondi. Risalì e depose con delicatezza la bimba per terra e cominciò a fare come le aveva insegnato il fratello. Le braccine in alto, su e giù e l’aria nella bocca e poi piccole spinte sul cuoricino, si un piccolo massaggio. E lo fece una due e tre volte mentre tutte le donne la mamma davanti la circondavano in preda all’ansia e al terrore. Mute, silenti davanti al pericolo intenso. E i volti scuri erano tutti diventati pallidi e le teste bruciavano nel sole di Crimea, senza il grigio dei fazzoletti. Il luccichio dei neri capelli di tante donne tutte unite da un unico desiderio, da un unico destino. E improvviso e miracoloso il colpo di tosse arrivò e la piccola sputò l’acqua dai polmoni. E aprì gli occhi incredibilmente azzurri, quell’azzurro intenso della gente di Russia. La madre corse a riabbracciar la piccola, si chinò per terra, infangando le belle scarpine bianche, buttando il bel cappello di paglia, gualcendo il vestito immacolato, i guanti che abbellivano le mani delicate che mai avevano visto un panno da lavare e strinse la piccola al petto. Piangendo il suo nome insieme a quello della Vergine. E subito appena calma, si volse alla donna che ansante e grondante le stava di fronte, mezza svestita, lo sguardo serio e il petto che si alzava e abbassava veloce. E la bella signora corse senza vergogna ad abbracciare le gambe della nuotatrice, si buttò ai piedi di chi se ne stava ferma, compresa, umile a riprendere le forze – Grazie – fu l’unica parola che uscì dalla gola contratta della signora – Grazie – sussurrò stritolando le gambe robuste di Ielena, che senza fiato fissava la chioma bionda e dolce della giovane mamma e l’unica cosa che riuscì a pensare fu “che bei capelli biondi” e poi con dolcezza si chinò, sollevò la dolce e sola signora e la portò al sicuro in mezzo a loro, insieme a tutte le altre lavandaie di divise. E la piccola aveva già dimenticato, sgridata a dovere senza capire nulla, si mise a lavare uno straccio insieme alla mamma. E china anch’essa su un mastello rideva felice, lo sguardo colmo di gratitudine, rideva la mamma insieme alle altre donne, tutte compagne, tutte donne.


RACCONTO DI EMANUELA VACCA tutti i diritti riservati


Nell’immagine: Felice Casorati – I Tuffatori –

In evidenza

I Peccati di S. Eustorgio Prologo e Capitolo I°

by Emanuela Vacca Copyright

PROLOGO

Tornano le avventure di Padre Fronimo Verri, l’Inquisitore dell’eretica pravità di Milano severo e inflessibile. Questa volta il nostro inquisitore sarà alle prese con un omicidio che avverrà nella basilica paleocristiana di Sant’Eustorgio a Milano.

Siamo nel 1492, un anno molto importante per la storia del mondo. Si entra ufficialmente nel periodo d’oro del Rinascimento con la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, ma la vita a Milano, come in molte altre Signorie e Stati italiani, ha ancora di fatto un’impronta fortemente medievale. Il ducato di Milano è retto dagli Sforza, con Ludovico il Moro. Al convento di Sant’Eustorgio, sito nel cuore della città e sulla strada che termina con la Porta Ticinese, vive la grande comunità dell’Ordine dei Padri Predicatori di San Domenico ed è sede del Tribunale dell’Inquisizione e del Sant’Uffizio. La basilica risale, il primo nucleo, intorno al 300 dopo Cristo ed è stata migliorata e ampliata dall’opera dei domenicani stessi che vi si insediarono nel 1220. 

Qui si tenevano i processi agli eretici e per stregoneria ed era un centro di riferimento per tutta la Lombardia.

Sono ormai quasi due secoli che i domenicani sono ospiti del complesso conventuale, ma il loro tempo sta per finire, infatti un’altra comunità, ben più gradita al duca Ludovico si sta imponendo. Sono i domenicani Osservanti che interpretano la regola di San Domenico in modo diverso dai Conventuali, primi seguaci di San Domenico.

I disordini cominciano presto, ma i conventuali di Sant’Eustorgio hanno armi con cui difendersi e un piccolo esercito di cavalieri Crocesignati che vivono al convento.                I Crocesignati di Milano sono una Confraternita di quaranta uomini provenienti da famiglie facoltose che hanno giurato fedeltà all’Inquisitore e rispondono solo a lui. Sono esenti da pene e ammende e lo Stato su di loro non ha potere. Girano per le città armati e spesso creano problemi, ma l’Inquisitore che è una figura molto potente e risponde solo al Papa, li protegge.                                                                                                                              Al convento vivono anche i “famigli”, persone assoldate dai vescovi o dai religiosi e scelte tra commercianti o provenienti da ambienti umili. Entrano a far parte dell’entourage del convento con ruoli di aiuto e di protezione. Sia i famigli che i crocesignati non prendono i voti. Infine vi sono i conversi e i novizi, anche essi ruotavano intorno al complicato mondo dei convento.

In questo contesto storico si inserisce la morte improvvisa di un Padre Predicatore.        Un uomo di cultura addetto alla lettura dei libri proibiti dalla Chiesa. Libri che entreranno a far parte del famoso “index librorum proibitorum” , un indice creato dal Santo Uffizio, organo dell’inquisizione, che condanna o assolve manoscritti di scienza, arte e filosofia.

In una brutta sera d’inverno viene trovato morto padre Raniero da Pontirolo, ucciso nello stesso modo di San Pietro Martire, domenicano anch’esso, con un colpo di accetta conficcata nel cranio. Toccherà a Fronimo tirare le fila dei complicati e non sempre chiari comportamenti dei confratelli e di coloro che ruotano attorno alla comunità religiosa. Per la seconda volta il religioso si improvviserà investigatore e questo lo porterà a ritrovare il suo amore mai dimenticato, Isobel e ad incontrare Fiammetta, un’herbana che ha salvato dal rogo.

Intrighi e colpi di scena in un susseguirsi movimentato di azioni di cappa e spada, porteranno Fronimo a mettere in crisi la sua fede in Dio e riveleranno che il medioevo non è mai stato quel periodo buio e incolto che molti ci vogliono far credere.

CAPITOLO I

Era là, in fondo alla sala, il corpo addossato alla statua di S. Pietro Martire, la testa rigidamente atterrata sulla caviglia di legno, il saio immacolato un campo di sangue scuro, e la testa..la testa colpita da una ferita mortale. Un’immensa scure aveva aperto il cranio di padre Raniero. Gli occhi spalancati sembrava fissassero ancora il volto dell’assassino, la sua furia e l’odio. Lo stupore che albergava negli occhi cerulei del frate, lentamente fattisi vitrei, era privo di paura ma colmo di un sordo dolore, come di un profondo amore profanato, improvvisamente tradito.
Fronimo, in piedi sulla pedana in legno che ospitava gli scanni delle sedute inquisitorie, le mani infilate nelle maniche, fissava il corpo inerme di quello che era stato il suo migliore amico, il suo mentore e maestro. Immobile e impassibile, il volto fermo, solo una lieve contrazione della mascella faceva percepire l’estrema tensione – Padre, è uno di noi. È qui dentro – E finalmente distolse lo sguardo che andò a conficcarsi come uno stiletto nell’animo del confratello. Il povero Priore, padre Uberto, teneva le mani giunte sul cuore, incapace di proferire verbo.

Erano venuti a chiamarlo a compieta, le otto di sera, un forte bussare l’aveva distolto da cupi pensieri. Se ne stava inginocchiato di fronte alla finestra della cella, il volto tra le mani, i capelli ricci un tempo neri, ora brizzolati, cadevano ribelli nascondendo il volto affilato e severo. La mascella e i pugni serrati nello spasimo del dolore per le fustigate appena inflittesi. Invano martoriava il corpo nella speranza di un po’ di pace, i pensieri continuavano a tornare, ad accanirsi nella sua anima disperata. La porta si era lentamente aperta e il piccolo frate entrando aveva fissato come incantato la schiena nuda dell’inquisitore segnata dalle vergate sanguinanti

– Padre, dovete venire, subito – ansimò. L’uomo di chiesa, si voltò di scatto, lo sguardo feroce contro chi aveva osato distrarlo dalla sua penitenza

– Da quando si entra senza bussare! Che volete! – abbaiò. Il giovane rimase impietrito 

– Scusate fratello, non sentivate, ma vi prego, dovete venire subito – Fronimo ci mise un po’ a mettere a fuoco il volto di chi parlava. La fronte imperlata di sudore freddo, pareva dovesse svenire da un momento all’altro.

 – sono occupato, non vedete! – e siccome l’altro non parlava, si decise ad alzarsi. Barcollò pericolosamente, il passo malfermo, urtando contro la parete della cella angusta. La statura imponente gli faceva dominare qualunque ambiente e metteva soggezione a chiunque si trovasse al suo cospetto, ma il giovane non sembrò intimorito e corse a sorreggerlo

  • “vi sentite bene?” e si precipitò a sorreggerlo
  • “lasciami!” Fronimo lo scostò bruscamente “dimmi ti chi ti manda”
  • “Il priore”  fu come se la parola gli avesse fatto scattare una molla interna.
  • “aspetta fuori. Sarò pronto in un attimo”

Scesero le strette scale in pietra che dalle celle portavano al chiostro. Ad attenderli c’era un uomo dal saio immacolato, di età indefinibile, i capelli imbiancati scendevano lunghi e lisci sulle spalle magre, un po’ ingobbite. Nello sguardo aveva una luce particolare, una luce che difficilmente si scordava e che sottometteva senza sforzo. Uomo di fede, certamente, profondamente comprensivo, dotato di una mitezza che ammansiva anche i lupi. La rudezza dell’inquisitore poco poteva contro un muro di pacatezza dell’anziano Padre Uberto e si trovava ad essere schiavo della gentilezza d’animo del responsabile di tutta la congregazione di Milano, dell’Ordine dei Padri Predicatori che aveva sede nel complesso addossato alla Basilica di Sant’Eustorgio. Il convento domenicano sorto secoli addietro,  dopo l’erezione della basilica.   

– Padre, mi avete mandato a chiamare. Cosa succede – disse non senza un pizzico di disappunto 

– Fratello Fronimo, si, e mi scuso per l’urgenza, ma vi assicuro, non avrei potuto evitarlo, nemmeno volendolo. Venite – disse con la solita serenità – è successa una cosa orribile – Non lo vide subito entrando nella sacrestia, dovette percorrerla in tutta la sua ampiezza. Il corpo era nascosto dal grande frattino, dietro il quale erano allineate perfettamente le alte sedie dei giudici e degli inquisitori. Si bloccò solo a pochi metri, vedendo il saio scomposto e l’uomo a terra. Passò molto tempo prima che riuscisse a proferire parola. – L’ha trovato il converso che è venuto a chiamarvi. – Triste destino, pensò Fronimo, e gli occhi fissarono l’enorme squarcio che fratello Raniero aveva nel cranio, un moto di rabbia impotente gli alterò i lineamenti                                                       

– Non vi ricorda nulla questa morte? – Certo, pensò il domenicano, l’orrenda fine dell’Inquisitore di Milano, San Pietro Martire, morto per mano di due sicari catari.          Ad avallare il macabro rituale il corpo si trovava proprio ai piedi della statua del Santo    – Padre Uberto, non dovete far entrare alcuno in sacrestia, devo analizzare attentamente il corpo, la posizione e prelevare alcune cose – Poi buttando un occhio al converso               – Potete concedermi l’aiuto di fratello Virgilio? – Il Priore non sollevò obiezioni e aggiunse – fate tutto ciò che serve, sono angustiato per la nostra comunità, come faremo a tenere occultata la morte del nostro….- sussurrò, la voce incrinata.

Erano arrivati entrambi al convento dopo il dottorato in teologia, frate Raniero era un appoggio, una fiaccola di fede per molti, un’anima buona con una profonda cultura alle spalle. Entrambi avevano visto aprirsi le porte della sede domenicana di Milano nel 1492 dopo una breve permanenza a Roma, in Santa Maria della Minerva. A Fronimo fu affidata l’analisi dei testi proibiti, lavoro che aveva imparato ad apprezzare nel soggiorno romano. Raniero da Pontirolo ricopriva il delicato incarico di vicario inquisitore, ma di tanto in tanto, si offriva di aiutarlo nella cernita dei libri che sarebbero finiti nell’ “index”.

S. EUSTORGIO

SantEustorgio_1_1200px-1024x921

Nel 1220 fu assegnata ai domenicani, giunti a Milano ed in cerca di una sede e nel 1227 viene definitivamente sancito il loro possesso della Basilica.
Il nuovo insediamento domenicano raggiunse in breve tempo grande popolarità sia per esser stato uno dei conventi dei frati predicatori di fondazione più antica (San Domenico era ancora in vita), sia per l’attiva predicazione dei frati contro l’eresia, che dovette essere assai efficace se già nel 1228 papa Gregorio IX elesse il convento milanese a sede dell’Inquisizione lombarda.
Ai frati fu affidato l’incarico di nominare gli inquisitori contro gli eretici.
Nel convento avevano sede due confraternite (la “societas fidelium”, con incarichi relativi all’Inquisizione, e la congregazione della Vergine), lo “studium logicae” e lo “studium philosophiae moralis”.
Sant’Eustorgio gestiva altresì un ospedale, testimoniato a partire dal XII secolo, che passò nel 1227 alla canonica di San Lorenzo insieme al capitolo.

SALA DEL TRIBUNALE  e Appartamento dell’Inquisitore

Salito lo scalone in pietra grigia, abbellito da quadri di papi e inquisitori che avevano preceduto l’attuale, si accedeva al primo piano. Lateralmente c’era una saletta che metteva in comunicazione  con le celle dei frati. Quivi era posto un piccolo altare con appoggiato sopra un crocifisso in legno. Su un tavolinetto spiccavano alcune bacchette di nocciola nera che servivano per l’assoluzione di colpe lievi e attendevano i malaugurati penitenti. In un armadio nero e grande si custodivano le carte relative al Sant’Uffizio e di fianco, l’Archivio Inquisitoriale. Al primo piano, si snodava anche la biblioteca decorata da numerosi quadri, uno in particolare rappresentava la diocesi del Sant’Uffizio, Sant’Eustorgio con la basilica e il lato esterno del complesso conventuale. La biblioteca era ricca di manoscritti, comprendeva le decretali di Innocenzo IV, un gridario generale e il Cathalogus Chronologicus fidei quaesitorum Mediolani che cominciava dal 1218.           Dalla biblioteca si passava nel piccolo studio dell’inquisitore che fungeva anche da luogo di riposo. Sul suo tavolo spiccava un grosso volume intitolato Il Direttorio, compilato sulle corrispondenze della Sacra Congregazione di Roma. Giacevano accatastati numerosi manoscritti che costituivano un fondo speciale delle opere presentate per l’imprimatur. In un angolo della camera non mancava, necessario alla difesa personale, un archibugio a fuoco accanto al cassone del letto. Di fianco al suo studio si apriva, immenso e minaccioso, il salone delle udienze che si presentava in tutta la sua severa austerità di un vero tribunale. Sulla porta d’ingresso del Sant’Uffizio si leggeva a grandi caratteri neri: Sanctissimae Inquisitionis Tribunal. Il soffitto era scuro a cassettoni. Dalle pareti pendevano grandi quadri dalle cornici in legno scuro e contornati in oro, raffiguranti padri domenicani vissuti lì.  Tutt’intorno, addossate alle pareti, “careghe” e seggioloni, scanni e canapé. Il consiglio sedeva intorno al lungo frattino, davanti al crocifisso che pendeva dal soffitto sul loro capo al della sala.                                                      Ai lati sedevano i cancellieri o i notari, o gli avvocati del reo. Vi erano diversi ingressi alla sala che erano curati dai famigli o dai Crocesignati che facevano da guardie nei processi. Una piccola scala serviva per accedere indisturbati al piano sottostante dove si usciva da una porticina nel chiostro. Questo passaggio quasi segreto, serviva sia all’inquisitore per uscire a riposarsi passeggiando nel chiostro, sia per portare gli imputati ammanettati, dalle carceri. I mobili che arredavano il piano erano cassapanche, sedie e poltrone armate, scanni, armari e armadietti, genuflessori, cassoni, commode, cantere di noce, testiere e tamburini. Su tutte le pareti comparivano i ritratti di cardinali, papi e inquisitori. Sulle scansie libri e carte geografiche. Nel lato nord si aprivano le celle dei Padri domenicani che facevano parte del consiglio, le celle erano allocate sopra l’infermeria e il refettorio. Nel chiostro piccolo, si svolgeva quasi tutta la vita del convento, fatta eccezione per la sala del capitolo, ubicata nel primo complesso, a fianco della sacrestia, dove la mattina ci si riuniva per riceve le istruzioni della giornata e la sera si leggeva il capitolo.

SALA CAPITOLARE

Ambiente impostato ad quadratum. Dopo la basilica e il chiostro è certamente il luogo più importante. In questa sala si concludeva ogni giorno l’ufficio con la lettura del Martirologio, con le rogazioni sui lavori dei campi e con la lettura di un capitolo della Regola di San Domenico. In essa si tiene il capitolo delle colpe durante il quale i monaci si accusano spontaneamente delle mancanze pubbliche contro la regola. Vi si svolgono anche le riunioni comunitarie come l’elezione degli inquisitori e del Priore, l’ammissione al noviziato, gli acquisti e le vendite dei terreni e tutti i problemi di una certa importanza. Il capitolo rappresenta il primo esempio di democrazia effettiva in cui viene dato a tutti i monaci il diritto di esprimere liberamente il proprio parere su tutte le questioni che riguardano la comunità. “Tutte le volte che in monastero si devono trattare questioni importanti, l’abate convochi la comunità, esponga di che si tratti e udito il consiglio dei fratelli, consideri la cosa dentro di sé, e faccia quel che giudicherà più utile.